giovedì 30 aprile 2009

Severino Di Giovanni: Tango di Amore e Anarchia.

Una vita troppo breve, un amore infinito. Quello di Fina e Severino
Tango d’amore e d’anarchia

UN PO’ DI STORIA: LA DECADE INFAME.
Il fervore degli anni folli, della sfrenata vita notturna, si spegne negli anni Trenta: è la ‘decade infame’ (1930-43), quella della crisi economica mondiale e del colpo di stato di Uriburu. La crisi economica del ‘29 comportò una politica protezionista nei paesi sviluppati e un mutamento nella produttività nazionale, obbligando ad investire par te dei guadagni dell’agricoltura nella produzione di beni di consumo non più impor tabili. Ciò fu perseguito proprio dai settori che controllavano le terre del paese, interessati a sviluppare un apparato industriale solo temporaneamente, in attesa di tornare alle proprie rendite agricole. Questa politica, attuata dall’oligarchia in combinazione con l’esercito, provocò una for te repressione dei lavoratori, l’istituzionalizzazione dei brogli elettorali per conservare il potere e un’alleanza con i paesi stranieri sempre più sfavorevole per gli interessi nazionali (accordo Roca-Runciman 1933). Questo è il contesto dei fatti che racconteremo.

Una grande passione fa da sfondo a questa storia: quella della lotta per la giustizia attraverso l’anarchia, che si diffuse in Argentina all’inizio del ’900, tramite alcuni europei esiliati dalle loro
dittature. Come nel caso di un giovane abruzzese, anarchico e dissidente, fuggito dall’Italia di Mussolini. La sua vicenda meriterebbe una sceneggiatura hollywoodiana ma c’è
un motivo per cui non potrà mai succedere. Scopritelo.




SEVERINO DI GIOVANNI sbarca in America nel 1922, con la prima moglie, Teresa Mascullo, e tre figli. A forza di calpestare terra argentina, però, a veniquattro anni s’innamora perdutamente della quindicenne América Scarfò, che appartiene ad una famiglia cattolica della locale classe media: il che non le impedisce di innamorarsi dell’italiano e delle sue idee rivoluzionarie. Gli Scarfò sono una grande famiglia calabrese: padre, madre e otto figli, tra cui America Josefa, che tutti chiamano ‘Fina’; una studentessa delle scuole magistrali, che diventa subito - è un colpo di fulmine - il grande amore di Severino.

Fina è bella, giovane e irresistibilmente attratta da quest’uomo dai modi raffinati e dall’eloquenza f luente, che sa accendere in lei una passione sconosciuta e fortissima. Saranno tre anni di amore ardente fatto di lettere appassionate, di appuntamenti davanti alla scuola di lei, come un qualsiasi adolescente alla sua prima cotta, di lunghi silenzi e di baci furtivi. I fratelli di Fina non sapranno mai della relazione, o faranno finta di non sapere; la madre Teresina, donna semplice, non si accorgerà mai di nulla e i due amanti non daranno mai luogo al minimo sospetto.

Le lettere di Severino rivelano un animo poetico insospettato in una persona così fredda, così determinata, così violenta. L’ideale anarchico, che per lui trascende qualsiasi vicenda umana, trova in questo amore disperato un lenimento, ma, al tempo stesso, proprio perché si
tratta di una passione senza sbocchi, la sua azione politica si attorciglia in una spirale di violenza e di morte che lo conduce prima all’isolamento totale e poi verso una sorta di paranoia ossessiva.

Per tre anni Severino vive col tempo contato, senza un attimo di respiro, e combatte una guerra totale contro tutti, compresi i suoi amici anarchici, che da lui, a poco a poco, prendono le distanze. Due attentati, con parecchi morti e feriti, segnano una svolta nei rapporti con il movimento anarchico. Il primo è quello al Consolato italiano. L’intenzione di Severino è di far esplodere la bomba nella stanza del console. Per una serie di tragicomiche circostanze, la bomba viene lasciata nell’atrio del Consolato, perché pare che di lì a poco il console debba uscire. Invece l’ordigno esplode tra le centinaia di persone che stanno facendo la fila per il visto di entrata in Italia: nove morti e trentaquattro feriti.

Il secondo attentato avviene la vigilia di Natale del 1927. Una valigetta viene depositata nella sede della National City Bank. Nel clima euforico delle feste, le impiegate stanno
acquistando da un commesso delle calze di seta, non si accorgono di quella valigetta nera, lasciata sotto una sedia da un cliente vestito di nero: due morti e ventitré feriti.



I giornali anarchici si scagliano contro le belve sanguinarie che, in nome dell’anarchia, seminano solo lutti; perfino il quotidano anarchico Antorcha, pur tra mille contorcimenti, condanna gli attentati. Solo Aldo Aguzzi difende Severino e i gruppi terroristici e parla di risposta sbagliata al terrorismo di Stato. Di Giovanni ribatte alle accuse colpo su colpo, scrive articoli deliranti su Culmine, la rivista di cui è editore, interviene su Antorcha, scrive all’Adunata dei refrattari pretendendo la nomina di una specie di gran giurì dell’anarchismo mondiale che giudichi le sue azioni. Da New York i patriarchi del movimento anarchico Luigi Fabbri e Vincenzo Capuana gli danno ragione. Sentendosi quasi autorizzato da questa singolare sentenza, Severino compie di seguito un attentato alla cattedrale, un morto; colloca, insieme con Buenaventura Durruti, una bomba su una nave attraccata nel porto e il cui equipaggio era in sciopero; rapina il Banco de Avellaneda, la Centrale degli autobus, il furgone della ditta Kloekner, che portava le paghe dei dipendenti e la sede degli Acquedotti comunali. L’azione che però lo perde definitivamente è l’uccisione di Emilio López Arango, anarchico, nuovo direttore de La Protesta.




Nessuno degli anarchici può perdonargli questo fratricidio; da quel momento, fine gennaio del 1930, Di Giovanni è veramente solo, anche perché Alejandro Scarfò, fratello di Fina, anche lui nel movimento anarchico, è stato arrestato e altri tre della sua banda hanno perso la vita durante le rapine. Gli resta soltanto il fedelissimo Paulino, altro fratello anarchico della famiglia Scarfò, e l’immenso amore di Fina. Progetta, perciò, di far evadere, colt alla mano, Alejandro e poi di fuggire con Fina ed i suoi fratelli in Francia. L’assalto al furgone di polizia in cui dovrebbe esserci l’amico riesce, ma il furgone è pieno solo di prostitute. Alejandro è rinchiuso in una
delle prigioni più inaccessibili dell’Argentina, il manicomio criminale di Vieytes. Severino non è uomo che si arrende facilmente.
La liberazione di Alejandro diventa il suo unico obiettivo per il quale si procura altro denaro rapinando, nel settembre del 1930, l’Opera Sanitaria Italiana. Con quei soldi affitta una villetta, con annesso un orto, nella zona di Belgrano e ci va a vivere insieme con Paulino, Fina,
Jorge Tamayo Gavilan, l’uomo che è felice solo quando può giocarsi la vita e Silvio Astolfi. Ha un progetto complicato: liberare Alejandro, fuggire in Uruguay e da lì imbarcarsi per la Francia e far espatriare Fina, facendola sposare ad Astolfi, che ha conservato la cittadinanza italiana.
Nello stesso tempo non rinuncia alla sua attività di tipografo-editore e prepara un’edizione, elegante e raffinata, con tiratura limitata in due volumi, degli scritti di Eliseo Reclus, il suo autore preferito.
Per preparare l’evasione il gruppetto di anarchici dispiega una va-
sta azione terroristica: in un solo giorno fanno esplodere tre bombe in tre posti diversi della capitale, facendo quattro morti. Severino vuole creare un clima di inquietudine ed esasperazione affinché l’attenzione della polizia si concentri sull’ordine pubblico e si pensi ad una cospirazione anarchica di vaste proporzioni. In tal modo crede di sviare l’interesse verso gli anarchici in car-
cere. Nel pomeriggio del 30 gennaio 1931 si reca in tipografia per correggere le bozze definitivdel secondo volume degli scritti di Reclus: un’imprudenza, perché la polizia ha compiuto diverse retate ed ha arrestato, tra gli altri, parecchi tipografi di origine italiana, praticamente tutte le tipografie di Buenos Aires sono sotto controllo. All’uscita dalla tipografia due poliziotti in bor-
ghese gli intimano di arrendersi.

Severino scappa tra i vicoli del centro e spara contro gli inseguitori. Più di venti poliziotti tentano di bloccarlo; sparano tutti; tra i due fuochi viene colpita a morte una bambina. Severino si ritrova all’improvviso, in un vicolo, un agente, senza esitare spara e lo abbatte poi corre a rifugiarsi in un hotel. Ai clienti dell’albergo che vedendolo cominciano a urlare, dice: «non vi spaventate, non vi faccio niente». In quel momento irrompe la polizia che spara all’impazzata.
Severino, senza scomporsi, risponde ed uccide un secondo poliziotto poi imbocca l’ascensore e cerca di svicolare dal tetto. Riesce, passando attraverso alcune terrazze, a scendere in un garage, dove i poliziotti lo attendono e gli scaricano addosso più di cento colpi. Sentendosi perduto, appoggia la pistola al petto e si spara un colpo, ma la ferita non è mortale e gli fa solo perdere i sensi.
Gli agenti lo bloccano e lo caricano su un’ambulanza che viene scortata da dieci pattuglie in motocicletta. In ospedale i chirurghi lo operano immediatamente, ma non è in pericolo di vita. Il Presidente della Repubblica in persona ordina al Ministro degli Interni, Matias Sánchez Sorondo, di trasferire subito Di Giovanni in un penitenziario e di costituire un tribunale militare
per giudicarlo. Il generale Medina viene, con decreto d’urgenza, nominato presidente della corte marziale. Nella notte Di Giovanni e Paulino Scarfò vengono giudicati e condannati a morte mediante fucilazione. Si verifica solo un imprevisto. Il tenente Juán Carlos Franco, nomi-
nato difensore d’ufficio, svolge il suo compito sul serio e tiene un’arringa difensiva che mette sotto accusa i metodi terroristici della polizia e l’uso strumentale che il governo vuole fare della vicenda Di Giovanni. Ma, terminata l’arringa, la pubblica accusa chiede il suo arresto im-
mediato e propone la degradazione e l’espulsione dall’esercito.

La Corte pronuncia la sentenza di condanna a morte per Severino e poi accontenta il pubblico ministero, aggiungendo l’espulsione dallo Stato per il tenente Franco, che viene esiliatoa Montevideo. Centinaia di persone si accalcano davanti alla prigione per vedere il famoso bandito; alcuni ministri, qualche attore famoso e altre personalità chiedono di vedere da vicino «la belva sanguinaria». Di Giovanni rifiuta di vedere chiunque e accetta solo la visita di Teresina e di Fina, che è venuta con la scusa di salutare il fratello.






All’alba del 1° febbraio 1931 Seve- rino di Giovanni viene condotto nel cortile del Carcere Central per essere fucilato. Si racconta che chiese al sergente che comandava il plo- tone di poter esprimere un ultimo desiderio e questi pose subito mano al pacchetto delle sigarette. «Non
voglio fumare, disse Severino, voglio un caffè. Dolce, mi raccomando«. Gli portarono una tazzina che riuscì a reggere a stento poiché i ferri gli serravano i polsi; bevve in maniera goffa quel caffè e restituendo la tazzina, rimproverò il sergente:
«Avevo detto dolce, un caffè molto dolce; pazienza, sarà per la prossima volta» e s’avviò verso il cortile.
Nessuno degli otto soldati, che componevano il plotone d’esecuzione, sbagliò. Paulino Scarfò fu fucilato un’ora dopo; non aveva ancora compiuto ventun anni.

Severino rimase un pericolo pubblico anche da cadavere. Seppellito durante la notte, in fretta e furia, nel cimitero della Chacarita in una tomba senza nome, la polizia scoprì con orrore che quella tomba, la mattina dopo, era ricoperta di rose rosse. Fu disposto che il corpo fosse rimosso
e buttato in una fossa comuni. Ma anche allora, per giorni e giorni, ogni mattina, gli agenti trovarono la fossa ricoperta di rose rosse. Non si scoprì mai chi fosse la misteriosa persona che portava i fiori durante la notte.


LE LETTERE che Severino Di Giovanni scrisse all’amata Fina furono scovate da Osvaldo Bayer, il giornalista argentino che sull’anarchico svolse accurate ricerche culminate nella pubblicazione di una fondamentale biografia nota anche in Italia (Osvaldo Bayer, Severino Di Giovanni, l’idealista della violenza, Edizioni Collana “V. Vallera”, Pistoia 1973).
La Scarfò cercò a lungo di riottenere dalle autorità i vecchi scritti.

Le riuscì, ottantaseienne. Mori nell’agosto 2006, a 93 anni.


Fonti
L’idealista della violenza
Osvaldo Bayer, Ed. Collana Vallera, 1973
L’italiano che amò l’Ame ica
articolo di Silvia Garnero
Amore e anarchia
articolo di Antonio Orlando



Ho la febbre in tutto il corpo
Una lettera a Josefina Scarfò
Domenica 19 agosto 1928.
«Mia amica. Ho la febbre in tutto il corpo. Il tuo contatto mi ha riempito di tutte le dolcezze. Mai come in questi lunghissimi giorni, ho tanto centellinato i sorsi della vita. Prima vivevo le ore tranquille di Tantalo ed ora, oggi, l’oggi eterno che ci ha uniti, vivo, senza saziarmi, tutti i sentiti armo- niosi dell’amore tanto cari a Shelley ed alla George Sand. Ti dis- si - in quell’amplesso espansivo - quanto tempo ti amavo, ma vor- rei dirti anche quanto ti amerò, perché il pane della mente che sa materializzare tutte le idealità elette dell’esistenza umana,ci sa- rà la guida più esperì a ,pieno di tante abilità, risolutrice di tutti i problemi nostri, che - e te lo dico con tutta la sincerità di un amico, di un amante di un compagno il nostro unisono bene sarà bello e lungo, godente e pieno di tutti i sentimenti, grande e scon- finatamente eterno. Quando ti parlo di eternità - tutto ciò che il cuore ha voluto ed amato è eterno - voglio alludere all’eternità dell’amore. L’amore mai muore. L’amore che ha germogliato lon- tano dal vizio e dal pregiudizio, è puro e nella sua purezza non si può contaminare e l’incontaminato è dell’eternità.Vorrei potermi esprimere sempre nel tuo idioma (Fina gli scriveva sempre in Ca- stigliano, n.d.r.)per cantarti ogni attimo del tempo la dolce can- zone dell’anima mia, farti comprendere i palpiti che percuote for- temente il cuore, le delicate figurazioni del pensiero mio che di tè invaghitesi non potrà mai dare il “finis” della sua elegia. Ma d’altra parte - io che credo che il mio amore è da te con- traccambiato con tutta la possanza della tua gioventù ancora in bocciolo, l’ho letto tante volte sulle tue nere pupille - mi contento nel sapere che per comprendere queste linee debbono essere rilette più di una volta da tè. Tu non avrai tempo di scrivermi. Tu devi ancora dedicarti allo studio. Baciami come io ti bacio. Rendimi duplicato il mio bene che ti voglio. Sappi che ti penso sempre, sempre, sempre. Sei l’angelo celestiale che mi accompa- gna in tutte le ore tristi e liete di questa mia vita refrattaria e ri- belle. Con te, ora e sempre».

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